Il funerale di Vittorio Casamonica è stato un’ulteriore dimostrazione di come un non-evento, attraverso l’orchestrazione dell’allarmismo mediatico, possa assurgere al rango di emergenza sociale e politica. A dirigere l’orchestra mediatica è stato, come sempre, il quotidiano di fintosinistra “La Repubblica”, una vera e propria centrale della manipolazione dell’opinione pubblica a fini coloniali. Uno dei tanti funerali pacchiani del boss di quartiere è così diventato un affare di Stato, anzi, una “sfida allo Stato”. Una criminalità burina e casereccia viene accreditata di aver messo in crisi le istituzioni: un rione contro la nazione. Ad essere messo sotto accusa dai media è stato infatti più il quartiere che non il clan. Tutto ciò non è fine a se stesso, e lo scopo non è affatto di “distrarre”, bensì di creare un’immagine distorta dei rapporti sociali. Il copione era già stato sperimentato lo scorso anno, durante la finale di Coppa Italia, elevando al ruolo di divo della “trattativa Stadio-Mafia” l’ultrà “Genny ‘ a Carogna”. Anche in quel caso la lettura degli eventi fu forzata al punto da offrire l’immagine di uno Stato “troppobuonista”, debole e inerme davanti alla violenza, quindi vittima di “qualunque” prepotente; uno Stato che “chiunque”, anche un Genny qualsiasi, potrebbe ricattare e prendere per i fondelli. I fatti successivi raccontano tutta un’altra storia, con un Genny condannato nell’aprile scorso a una pena sproporzionata rispetto alle effettive imputazioni, a riprova di come lo “Stato”, sempre comprensivo e “garantista” nei confronti dei potenti come De Gennaro e Deutsche Bank, si riveli invece punitivo e vendicativo nei confronti dei soggetti deboli. I commenti razzistici sui blog indicano che l’effetto ipnotico è stato raggiunto, perciò, nell’epoca della Diaz e di Federico Aldovrandi, il “violento” è uno che scavalca le recinzioni.
Si tratta di vere e proprie operazioni di guerra psicologica, mirate alla fascistizzazione dell’opinione pubblica. La narrazione deformata di vicende da rione o da stadio fornisce alle persone un paradigma generale, un automatismo mentale, da applicare ad ogni situazione, interna o internazionale. L’idea da imporre è che i maggiori pericoli non provengono dai potenti, ma dai deboli. Tramite la fiaba mediatica allestita sul funerale di Casamonica, il mito interclassista della “legalità” ha fatto breccia anche, e soprattutto, nell’opinione pubblica di “sinistra”, dagli anni ‘70 riconvertita alla “questione morale” ed al culto della magistratura.
Si viene quindi convinti che ci vuole uno “Stato forte” (in politically correct: “autorevole”), che tenga a bada l’illegalità che proviene da “tutti”, poveri e ricchi, deboli e potenti; ma, dato che i deboli e i poveri sono di più, ed anche più arrabbiati, ignoranti e “fanatici”, è da loro che proviene la minaccia più insidiosa. L’interclassismo, come al solito, serve come esca per veicolare un odio di classe verso i poveri, in definitiva un razzismo a tutto campo, interno ed esterno.
L’esito della finta emergenza-Casamonica non sarà quindi l’introduzione di una certificazione antimafia per i funerali, ma il consolidamento nell’opinione pubblica in generale, ed in quella di “sinistra” in particolare, dell’immagine di un potere legittimato a violare le sue stesse regole in nome della propria condizione di vittima; un potere “costretto” suo malgrado a fare il duro perché deve scontare il fatto di essere stato “troppo buono” e accondiscendente in passato verso le pretese dei poveri. Il vittimismo dei potenti diventa così lo stile di governo, con esiti anche piuttosto ridicoli, dato che poi il buonsenso è duro a morire.
Pochi giorni fa oltre duecento “imprenditori” hanno firmato una lettera-appello, pubblicata sul “Corriere della Sera, per “salvare” Renzi, manco si trattasse di un detenuto di colore nel braccio della morte in Alabama. Lo strumento degli “appelli”, caro alla sinistra umanitaria, viene riciclato come espediente vittimistico di un potere che recita la parte dell’incompreso esposto agli strali dell’ingratitudine.
Che duecento “imprenditori” difendano con toni accorati un governo che, al di là degli slogan sulla “crescita”, compie solo scelte recessive e depressive, la dice lunga sul come questi intendano la cosiddetta impresa. Non interessa che il governo crei condizioni economiche favorevoli allo sviluppo, ma solo che impoverisca i poveri.
Nel cosiddetto capitalismo, l’impoverimento del lavoro non è un fastidioso effetto collaterale, bensì la relazione fondamentale, la base della gerarchia sociale e della gerarchia coloniale. Per venti anni ci è stato detto che umiliare il lavoro era indispensabile per la competizione internazionale con i “Paesi emergenti”. Si è creato così un “alibi cinese”, che è alla base dei tanti “Jobs Act” imposti in questi anni. Sennonché oggi si scopre che la recessione europea alla fine sta trascinando anche la Cina, la quale, nonostante tutti i tentativi di questi anni, non è riuscita a sviluppare una domanda interna tale da preservarla dal crollo dei consumi a livello mondiale. Il rallentamento dell’economia cinese, evidente da almeno tre anni, ha portato al prevedibile - e previsto - scoppio delle varie bolle finanziarie. La “competizione” con la Cina era quindi solo un pretesto, ed il vero scopo era di esportare nei Paesi “emergenti” la recessione europea. La depressione dovuta alla disciplina dell’euro era la grande bomba a tempo che l’imperialismo USA aveva collocato sotto i piedi dei Paesi “emergenti”, impegnati a tentare di accedere all’industrializzazione.
La risposta del governo italiano alla crisi cinese è infatti basata, ancora una volta, sulla compressione del costo del lavoro, con la priorità assegnata ai contratti aziendali, che comporterà gli ovvi e ulteriori effetti depressivi sulla domanda interna. La conseguenza è che i lavoratori dovranno indebitarsi anche per accedere a consumi primari.
E l’alibi cinese che fine fa? L’alibi cinese viene riciclato in forma rovesciata, ma con gli stessi effetti pratici. Altrimenti a cosa sarebbe servita tutta quella guerra psicologica per criminalizzare preventivamente i poveri?
Se fino a ieri bisognava svalutare il lavoro e fare sacrifici per “competere” con la Cina, d’ora in poi umiliazioni e sacrifici saranno necessari per difenderci dalla”minaccia” cinese, la “bomba atomica” che incombe sull’economia mondiale. La nuova versione dei fatti è che l’Occidente “troppobuonista” in passato ha dato troppo spazio e fiducia alle pretese di arricchimento dei Cinesi, che, come i Malavoglia, hanno fatto il passo più lungo della gamba. Anche i Cinesi, come i Greci, ora sono presentati come dei poveri che hanno preteso di vivere al di sopra dei propri mezzi, ed ora rischiano di far saltare tutto. Ora si riscopre persino che la Cina è “comunista”, e la si accusa di aver saputo prendere dal capitalismo solo gli aspetti “peggiori” (gli aspetti “migliori”, evidentemente, sono riservati ai popoli superiori). Anche la colpa del disastro economico non sarà perciò da attribuire al capitalismo, ma si potrà catalogare tranquillamente come l’ennesimo crimine del comunismo.
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